7 novembre 2014
Io e la mia collega Manuela eravamo a Cracovia, per un meeting di un progetto europeo, e così abbiamo colto l’occasione per andare a visitare Auschvitz, ex campo di sterminio nazista, oggi patrimonio dell’Unesco.
Un pulmino ci preleva dall’hotel, per poi fermarsi a caricare altri partecipanti, un italiano e due francesi. Il viaggio in pulmino dura circa un’ora e dieci. La visita guidata prevede, già durante il viaggio, la proiezione di un documentario sulla liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, che contiene alcune delle poche riprese video storiche del campo. È molto forte, e lo guardiamo in silenzio, senza commenti; è come se ci stessimo predisponendo alla visita.
Arrivati ad Auschvitz c’è una strana atmosfera. Nonostante l’altissimo numero di persone da diversi paesi europei, e la giovane età di molti partecipanti, tutti mantengono un certo contegno. C’è una tensione nell’aria, come se fossimo in qualche modo timorosi, allarmati da ciò che ci aspetta al di là del famigerato cancello.
Veniamo suddivisi in gruppi, a seconda della lingua, e ci viene dato un adesivo colorato. Quello degli italiani è celeste.
La nostra guida, Magdalena, parla un buon italiano, con accento dell’est. Entriamo ad Auschvitz.
Seguendo Magdalena passiamo per i diversi blocchi, come in una rassegna degli orrori, attraversando luoghi dove venivano somministrate le peggiori torture. Ma la cosa più terrificante, oltre alle celle dove si moriva di inedia, o a quelle dove i prigionieri erano costretti a stare in piedi per settimane, o agli esperimenti folli fatti dal famigerato medico del campo, Mengele, alle punture di fenolo fatte ai bambini (l’elenco degli orrori è infinito…), è la lucida pianificazione e organizzazione che c’era dietro. La perfezione geometrica dei blocchi, degli edifici disposti nel campo, sembra ribadire questa fredda e organizzata follia.
Come se non bastasse, la guida ci racconta come nel campo le S.S. avessero organizzato una banda musicale, dove suonavano anche musicisti ebrei famosi che erano tra gli internati. Questa banda serviva a coprire l’orrore agli occhi della comunità internazionale, come era per il campo di Theresienstadt. Una pratica beffarda, diabolica.
Il cielo è plumbeo, e man mano anche il nostro animo diventa sempre più scuro e pesante.
In alcuni dei blocchi sono esposti gli oggetti personali di cui venivano spogliati gli internati al loro arrivo al campo, o prima di essere mandati alle camere a gas. Le loro valigie, scarpe, occhiali, dentiere… tutto veniva meticolosamemte raccolto per categorie….
Alcuni oggetti, come le pentole e le bacinelle, testimoniano il fatto che chi arrivava al campo non volesse credere a ciò che al tempo già si cominciava a sapere, ossia che si fosse pianificato lo sterminio, la “soluzione finale”….. Questa idea era talmente inconcepibile che le famiglie portavano tutto il necessario, si organizzavano per la durata. Portavano con loro anche le cose più preziose, che andranno poi ad arricchire le S.S., nonché i corredi delle loro spose.
E arriviamo ad una sala dove, dietro una lunga vetrata, c’è una massa enorme di capelli… è solo una parte dei sacchi di capelli che vennero rinvenuti dopo la liberazione del campo, sacchi destinati ad industrie tedesche che ne facevano tessuti e corde. Qui non si può fotografare, per rispetto ai morti, perché non si tratta di oggetti, ma di resti umani, gli unici che rimangono, oltre alle ceneri. E nella stessa sala, in una bacheca, troviamo un tessuto fatto fatto con i capelli umani. È un tessuto perfetto incredibile nella sua trama fine e regolare. Resto ad osservare quel tessuto, immobile, incredulo; anche il pensiero sembra fermarsi. Quell’oggetto assolutamente così carico di orrore oltre l’immaginario, che non riesci quasi a concepire e che ti lascia completamente attonito, sembra una sinistra metafora di qualcosa che caratterizza la nostra epoca: la perfezione della tecnica, la realizzazione di qualcosa di incredibilmente sofisticato al prezzo della perdita della più basilare umanità. È una delle immagini indelebili che mi porto da Auschvitz.
Finita la visita ad Auschwitz ci spostiamo verso Birkenau. C’è una linea di trasporto fornita dal museo a questo scopo. Una immagine un po’ surreale, che questa volta viene dal presente: l’autobus con la grande e illuminata scritta di destinazione, Auschvitz, che potrebbe essere un autobus di quelli che vedi per le strade di Roma, con tanto di fermata e gente che aspetta… il bus per Auschvitz. Ti viene da pensare a tutti i treni che hanno portato qui centinaia di migliaia di persone.
Birkenau è ancora più crudo. Ci accoglie il binario e la banchina dove scendevano i deportati, vista in tante foto e in diversi film. La banchina dov’é si decideva in pochi minuti del destino di coloro che arrivavano: la morte direttamente in camera a gas, o i lavori forzati e la vita nel campo, seppure sempre appesa ad un filo. Qui le famiglie venivano separate. Da una parte gli abili al lavoro, dall’altra anziani, donne bambini…. E in quel momento, nella confusione, nel terrore degli ordini urlati dai soldati, vedevi per l`ultima volta i tuoi cari. Saluti struggenti, con la speranza di rivedersi e che almeno l’altro restasse vivo. Procediamo in silenzio lungo la banchina, e penso alle migliaia di persone che hanno camminato proprio su quel terreno andando verso le camere a gas.
Delle camere a gas rimane ben poco perché i tedeschi le fecero saltare abbandonando i campi. Ma il plastico che abbiamo visto precedentemente nel museo, che le descrive fedelmente, in maniera cruda, fa riemergere immagini nella nostra mente. Sempre al campo precedente abbiamo visto anche i forni. I tedeschi non fecero in tempo a distruggere tutto. La guida dice questi forni “avevano una resa di 1600 cadaveri al giorno” … “Resa”; Magdalena non è di madrelingua italiana per cui probabilmente non si rende conto come suoni strano usare questo termine tecnico per una cosa così agghiacciante.
Circa un milione e mezzo di morti nei campi di Auschwitz e Birkenau. La mente non riesce a concepire questo numero. La guida racconta, ci da altri numeri come i 24 mila rom uccisi in pochi mesi, e così via, secondo le diverse etnie e categorie dei deportati, oltre agli ebrei. Ma non riesci a concepire ad immaginare numeri così grandi di morti. La mente vacilla. Mi aggrappo ai particolari. Entriamo in uno dei blocchi dove vivevano i prigionieri. Osservo i letti (se così si possono chiamare) di legno dove erano in tanti a dormire tutti insieme. Contemplo quel legno vecchio consunto immaginando le tante persone, i tanti corpi che vi hanno giaciuto. L’immagine restituisce concretezza a questi numeri.
Siamo verso la fine della visita. Noto che la tensione tra i visitatori cala; alcuni ragazzi scherzano, sebbene mantenendo comunque un atteggiamento sostanzialmente compunto; c’è chi si difende con un atteggiamento da “studioso”, aggiungendo informazioni al racconto della guida, come a mostrare di conoscere bene l’argomento. Non è facile sopportare la crudezza e l’intensità di quello che stiamo vedendo.
Mi stacco dal gruppo, non ho voglia di essere distratto. Ed è lì che, ad un certo punto, mi prende l’acuta coscienza della morte. Forse per la prima volta, o per lo meno in un modo che non avevo sperimentato prima, avverto il senso e la paura della morte… una coscienza che porta – nello stesso tempo – un senso di urgenza, di non volere perdere tempo, desiderio di vivere al meglio quello che ci è dato, nella maniera migliore e più utile possibile, per se stessi e per il mondo.
Ci incamminiamo per tornare verso Cracovia con il nostro pulmino. Ci sembra di riemergere da un altro tempo.
Siamo tristi e rabbuiati (anche fuori è diventato buio, nel frattempo). Rompo un po’ il ghiaccio con l’altro partecipante italiano, che si chiama Gianluca, e viene da Milano. Dice che la visita gli ha lasciato un senso di impotenza, di sfiducia nel genere umano. E si domanda – come purtroppo ognuno che sia stato ad Auschvitz – perché sembra che questa storia non ci abbia insegnato fino in fondo quello che avremmo dovuto capire, visto quello che è successo in Europa e in altre parti del mondo dopo la seconda guerra mondiale, nonchè quello che succede in Palestina, dove – certo non in un modo paragonabile ad Aushcvitz – gli oppressi sono comunque diventati oppressori. Rifletto che è chiaro che la storia non possa insegnare automaticamente, così come non si impara automaticamente dalla propria esperienza. Per imparare dalla storia, così come dalla propria esperienza, è necessaria un’azione interiore, di conoscenza, un “fare coscienza”. Penso all’importanza del lavoro educativo, così maltrattato dal mio paese.
Le immagini della vita fuori, della città, ci riportano lentamente a quella che chiamiamo realtà. Ma mi chiedo se la realtà più vera non sia quella che abbiamo intravisto ad Auschvitz, una realtà più vera in quanto dice qualcosa della storia dell’essere umano e di noi stessi, che nascondiamo, ma che invece faremmo bene a tenere a mente.
Davvero toccante..
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